Dispositivi conosciuti con i nomi commerciali Vicryl e Dexon con cui si produconofili di sutura e reti riassorbibili, utilizzate negli interventi chirurgici per sostenere e proteggere organi e tessuti interni (nelle ernie addominali) o per fissare dispositivi medici all’interno del corpo (pacemaker) o ancora per ricoprire impianti orbitali. Sono composti di acido poliglicolico, polimero biodegradabile e termoplastico che viene gradualmente riassorbito nella sede di impianto. Le reti hanno forme standard o premodellate e presentano una sottigliezza tale che ne permette in genere l’impiego sia in chirurgia aperta che in procedure laparoscopiche. Possono essere forate e con dimensioni diverse per ogni tipo di esigenza clinica.
Il Polyglactin 910 mesh (Vicryl) è un materiale sintetico bioassorbibile specifico per impianti orbitali porosi e non porosi che elimina il rischio di trasmissione di infezione ed è prontamente disponibile e è poco costoso. Gli impianti in idrossiapatite ricoperti in Vicryl hanno mostrato una rapida fibrovascolarizzazione, sono molto ben tollerati dal tessuto orbitale e non appare infiammazione dei tessuti associabile al loro assorbimento. Alcuni chirurghi ritengono che la ricopertura con rete in Vicryl sia associata ad un più alto tasso di esposizione dell’impianto.
E’ un derivato dell’acido alginico a sua volta estratto da alghe marine e fornisce la classica pasta rosa per la presa delle impronte. Le caratteristiche principali dell’alginato sono:
A causa della tendenza dell’alginato a disidratarsi velocemente e quindi a cambiare forma, è necessario procedere con la colata del gesso il più presto possibile.
Prima della colata di gesso, l’odontotecnico rimuove i residui di saliva e sangue immergendo l’impronta in una soluzione di solfato di potassio per qualche minuto e poi la asciuga con un getto d’aria.
L’ossido di alluminio è un biomateriale da impianto che è stato utilizzato nella chirurgia ortopedica e odontoiatrica per oltre 30 anni. Si tratta di un materiale poroso, sostanzialmente inerte, ed è stato suggerito come materiale standard di riferimento negli studi di biocompatibilità dell’impianto. Gli impianti in bioceramica ospitano una crescita fibrovascolare simile all’idrossiapatite. I fibroblasti e gli osteoblasti umani proliferano in vitro più rapidamente in ossido di alluminio che in HA, suggerendo che l’ossido di alluminio è una sostanza più biocompatibile. L’impianto bioceramica inoltre è leggero ed ha una struttura dei pori uniformi e un’ottima interconnettività, la struttura microcristallina è più liscia della superficie ruvida dell’idrossiapatite. Le cavità anoftalmiche ricostruite con impianti di ossido di alluminio sembrano essere soggette a minore infiammazione postoperatoria dei tessuti di quelle in cui sono stati posizionati gli impianti di HA. I problemi rilevati con l’uso dell’impianto di ossido di alluminio sono simili a quelli osservati con l’idrossiapatite ma sembrano meno frequenti. Come altri impianti orbitali porosi, anche quello in ossido di alluminio è meno costoso dell’idrossiapatite.
La biocompatibilità è un parametro che indica l’idoneità di una sostanza o di un materiale ad essere messo a contatto con un organismo vivente per un certo tempo. E’ perciò di notevole importanza in ambito farmacologico e biomedico nella produzione di materiali utilizzati per la costruzione di protesi, quali ad esempio il PMMA, il silicone, il titanio e l’idrossiapatite. Questi materiali devono presentare una totale biocompatibilità nei riguardi dell’organismo umano in cui vengono impiantati, in quanto non solo non devono essere dannosi, ma devono anche non essere attaccati dalle proteine dell’organismo.
Lo studio delle caratteristiche di una matrice biologica perciò risulta essere di notevole utilità e importanza. A questo scopo si effettuano studi su colture di cellule che vengono utilizzate estensivamente per valutare la biocompatibilità di biomateriali potenzialmente impiantabili.
Un biomateriale, dunque, è un materiale che si interfaccia con i sistemi biologici per valutare, trattare, aumentare o sostituire un qualunque tessuto, organo o funzione dell’organismo. Un biomateriale provoca una risposta biologica dell’organismo in cui si trova ad operare che a sua volta causa un processo di degradazione nel biomateriale stesso. Si parla quindi di doppia interazione tra i due sistemi.
I meccanismi di difesa naturali, sebbene siano ovviamente indispensabili per la sopravvivenza dell’organismo, costituiscono il principale ostacolo all’applicazione di dispositivi medici. Al pari di un qualunque evento traumatico, anche l’inserimento di un dispositivo medico viene gestito dall’organismo biologico come un evento da cui difendersi.
Questo “rifiuto” deriva sostanzialmente dal fatto che l’accettazione di un dispositivo da parte dell’organismo avviene sulla base di meccanismi di riconoscimento molecolare dei materiali di cui il dispositivo è costituito e non sulla valutazione delle funzioni che tali materiali (e il dispositivo) possono svolgere.
La biocompatibilità indica perciò l’attitudine di un materiale ad essere ben tollerato dall’organismo ospite in cui deve operare, determinando una risposta opportuna in relazione all’applicazione da parte di quest’ultimo e deve conservarsi per l’intera durata dell’applicazione a cui è destinato. Ad esempio una membrana per emodialisi è utilizzabile soddisfacentemente perché rimane a contatto con il sangue del paziente solo per poche ore; un contatto più lungo nel tempo comporterebbe danni per la persona. Una protesi invece deve garantire il funzionamento e la biocompatibilità per tutta la durata della vita del paziente.
I materiali impiantabili oggi disponibili sono numerosi e possono essere suddivisi nelle seguenti categorie:
Tipo |
Composizione |
Utilizzo |
Polimeri del carbonio |
Gore-Tex(PTFE espanso) |
Ricostruzione parete toracica e addominale |
Polipropilene(Marlex, Prolene) |
Ricostruzione parete toracica e addominale |
|
Polietilene(Medpore) |
Riempimento di difetti di tessuti molli |
|
Polietilene tereftalato (Dacron,Mersilene) |
Suture chirurgiche |
|
Poliuretano |
Rivestimento di protesi mammarie |
|
Poliesteri alifatici(ac. polilattico,poliglicolico ecc.) |
Suture chirurgiche |
|
Metilmetacrilato(MMA) |
Ricostruzione parete toracica e addominale |
|
Polimeri non carbonici |
Silicone |
Protesi mammarie |
Ceramiche |
Idrossiapatite |
Camouflage di difetti del distretto cranio-facciale |
Fosfato tricalcico |
Ricostruzione piccoli difetti ossei |
|
Metalli |
Titanio |
Miniplacche e viti |
Occorre anche valutare vantaggi e svantaggi in relazione al campo di applicazione:
Strumento chirurgico che mantiene le palpebre aperte e che permette al chirurgo di avere una buona visione del bulbo oculare, evitando che il paziente possa chiudere gli occhi durante l’intervento.
Nell’oculoprotesica viene denominato «blefarostato» uno speciale supporto costituito da una coppia di alette fisse o separabili in resina che viene applicata sulla protesi oculare e che funge da supporto per le palpebre stesse. La sua funzione è quella di allargare e rimodellare progressivamente la rima palpebrale atrofica e ripristinare gradualmente i movimenti delle palpebre esercitando una leggera e costante pressione su di esse.
Questo congegno è utilizzato nelle applicazioni protesiche dove sono compromesse dimensioni e movimenti delle palpebre, l’ampiezza della rima palpebrale e in genere nelle cavità contratte dove è presente una forte retrazione dei tessuti palpebrali.
Materiale utilizzato per modellare la protesi oculare sagomando il suo profilo fino ad ottenere la forma richiesta. E’ unmateriale di natura termoplastica che rammollisce facilmente ed è deformabile sotto l’azione del calore, per ritornare rigido con il raffreddamento. Ha largo impiego in oftalmotecnica perché le sue caratteristiche permettono di lavorare con facilità sagomandole nelle forme desiderate. Ne vengono utilizzati diversi tipi a secondo dell’uso e delle loro caratteristiche che dipendono dalla loro composizione chimica.
Proprietà della cera:
Ausilio protesico realizzato in PMMA trasparente, in silicone o in resina bianca (senza iride e vene dipinte) che si applica subito dopo l’intervento per evitare l’insorgere dei primi fenomeni della retrazione cavitaria e mantenere in esercizio le palpebre. La sua applicazione è sufficiente per mantenere l’ampiezza della cavità per alcune settimane, facilitando la successiva applicazione protesica.
Esistono conformatori di tutte le dimensioni e forme, semplici o con uno o più fori per consentire l’instillazione di colliri o pomate. La forma del conformatore dovrebbe combaciare il più possibile con i fornici palpebrali superiore ed inferiore con lo scopo di mantenerli ampi. L’applicazione del conformatore è indispensabile dopo l’intervento di approfondimento dei fornici o di sbrigliamento delle aderenze congiuntivali, con lo scopo di evitare, durante la cicatrizzazione, la riadesione dei tessuti appena separati.
Il conformatore compressivo, invece, è un semplice conformatore applicato con l’ausilio di un apposito bendaggio che in questo modo esercita su di esso una forza utile per favorire la ritenzione della protesi nelle cavità dove è richiesta maggior capacità contenitiva oppure dove si deve aumentare la dimensione dei fornici.
Capitolo a parte è dedicato ai conformatori pediatrici che normalmente sono sagomati in modo da fungere anche da blefarostato, con lo scopo di rimodellare la rima palpebrale ed aumentare progressivamente la funzionalità delle palpebre, spesso fortemente compromessa nell’anoftalmia congenita o dopo l’enucleazione seguita da radioterapia conservativa.
Vedi «Acido poliglicolico».
Nei casi di fratture medio-piccole del margine e/o del pavimento orbitario può essere effettuato un innesto con prelievo autologo di dura madre o eterologo con dura madre liofilizzata. La dura madre è composta di tessuto fibroso con fibre elastiche e all’interno è rivestita dall’endotelio. Un’incisione sottotarsale consente di revisionare direttamente i siti di frattura, nonché di proteggere in maniera adeguata il globo oculare durante la fase di ricostruzione. Questa via di esposizione chirurgica consente una più facile dissezione delle strutture e l’assenza di edemi post-operatori prolungati e/o ectropion. E’ stato segnalato che l’utilizzo della dura madre potrebbe essere responsabile della trasmissione del morbo di Creutzfeldt-Jacob (encefalopatia spongiforme).
E’ la soluzione protesica per la correzione dei difetti dell’osso mascellare conseguenti a interventi chirurgici oncologici, traumi facciali e malformazioni congenite, in particolare dei difetti facciali (naso, occhio, orecchio) con epitesi protesi ricostruttiva (Anaplastologia) che viene applicata dopo interventi demolitivi di una vasta parte del viso. Può interessare l’intera orbita e le palpebre (exenteratio orbitae) oppure il padiglione auricolare o la piramide nasale. Normalmente si utilizza un’epitesi nei casi in cui sia preferibile poter ispezionare con facilità e frequentemente la breccia operatoria, ad esempio nei tumori del massiccio craniofacciale e dell’orbita.
Attualmente l’epitesi può essere fissata al volto con due sistemi:
Nel primo caso il vantaggio è quello di un ancoraggio stabile ma esistono alcuni aspetti negativi: la difficoltà nel posizionamento degli impianti in rapporto alle caratteristiche dell’osso residuo (vascolarizzazione, spessore, densità ossea) e la mancata osteointegrazione nel tessuto, soprattutto se sottoposto a radioterapia. L’osteointegrazione è condizionata infatti dalla consistenza dell’osso e dai processi infettivi e per questi motivi il fallimento dell’impianto aumenta in presenza di osso radiotrattato e nel paziente che ha subito chemioterapia. Per risolvere questi problemi sono stati sviluppati dei sistemi di ancoraggio adesivi con i quali l’epitesi appoggia direttamente sulla cute senza l’ausilio di ancoraggi o impianti. I vantaggi sono notevoli:
Migrazione e fuoriuscita di un impianto dalla sua sede dovuta ad una sutura inadeguata o troppo debole oppure all’applicazione di una protesi oculare inadeguata che provoca decubito che progredisce fino alla perforazione del tessuto di ricoprimento. L’estrusione dell’impianto può avvenire anche per deiscenza del tessuto di ricoprimento dovuta al suo errato posizionamento o alla scelta errata delle sue dimensioni (un impianto troppo grande esercita una tensione eccessiva sul tessuto di ricoprimento e sulla sutura mentre uno troppo piccolo si muove all’interno della sua sede creando attrito che a lungo andare lede il tessuto che lo ricopre).
La fluoresceina sodica (o sale sodico della fluoresceina) è un indicatore che a temperatura ambiente si presenta di colore rosso-bruno ma se viene eccitata da raggi ultravioletti a 254 nm e nella gamma del blu (465-490 nm) emette una intensa fluorescenza di colore giallo-verde. Il sale sodico si scioglie facilmente in acqua ed è fortemente fluorescente; la soluzione si usa per tingere lana e seta, per colorare le acque nella prospezione dei corsi d’acqua sotterranei, ecc. In medicina è utilizzata nella fluoroangiografia, angiografia a fluorescenza usata per evidenziare lesioni vascolari retiniche, somministrandola per via endovenosa e quindi fotografando l’immagine ottenuta.
Durante il test di colorazione oculare viene posta sulla cornea e viene illuminata con una luce emessa da una lampada di Wood (a vapori di mercurio). Il tracciante mostra graffi, lesioni o oggetti estranei presenti nell’occhio che investiti dalla luce risulteranno di colore verde acceso. In base alla colorazione, il medico può identificare problemi alla cornea o diagnosticare determinate patologie come abrasione ed ulcera corneale, cheratite, ecc.
Se si usano lenti a contatto, il medico può eseguire il test per verificare se le lenti stanno danneggiando la cornea. L’operatore userà un piccolo contagocce o una strip di carta già confezionata per posizionare la fluoresceina sulla cornea e in quel momento il paziente può avvertire un leggero bruciore che scompare dopo pochi istanti e dovrà battere le palpebre varie volte per far sì che la sostanza ricopra completamente la superficie della cornea.
Vedi «Guscio sclerale».
Materiale per ricoprimento utilizzato in chirurgia addominale, urologia, ginecologia, chirurgia orbitaria e maxillo-facciale. In chirurgia plastica, oltre alla ricostruzione toracica e della parete addominale, costituisce un ottimo presidio nel rimodellamento estetico dei tessuti molli del volto. Possiede un’elevata resistenza tensile (può arrivare fino a 5300 N) e diffusa porosità (pori dal diametro variabile da 10 a 30 μm). Quest’ultima proprietà consente, anche se in misura minore, la penetrazione nel materiale impiantato di fibroblasti e collagene e la sua incorporazione nei tessuti circostanti formando solo una delicata pseudocapsula fibrosa. Il processo sembra cominciare già durante la prima settimana dall’impianto ma appare meno intenso rispetto ad altri materiali alloplastici porosi. Gli atomi di Fluoro presenti nella molecola, inoltre, formano una sorta di guaina protettiva intorno alla catena di carbonio che ne impedisce l’attacco da parte di numerosi agenti chimici, garantisce l’inerzia e la stabilità chimico-fisica del polimero. Grazie a questo può essere sottoposto a più processi di sterilizzazione, tanto a gas quanto a vapore, senza alterarne la struttura e le caratteristiche.
Nei primi anni ’90, il PTFE espanso ha trovato, grazie alla sua estrema biocompatibilità e manegevolezza, grande spazio nella chirurgia del rimodellamento del volto, sia a fini ricostruttivi che estetici. Il Gore-Tex Soft Tissue Patch consiste in fogli che possono essere sagomati per il riempimento di qualsiasi difetto. E’ stato utilizzato in estetica per il riempimento di labbra, solchi nasogenieni e rughe glabellari; in ricostruttiva per il trattamento di patologie quali l’emiatrofia facciale, le perdite di sostanza traumatiche del volto e nella ricostruzione del naso.
Il Gore-Tex possiede innumerevoli vantaggi rispetto ad altri sostituti ed è quello che probabilmente si avvicina di più alle caratteristiche ideali di un biomateriale protesico: il PTFE espanso è altamente biocompatibile, anallergico, non cancerogeno ne mutageno, con reazioni da corpo estraneo virtualmente assenti. La risposta infiammatoria è sicuramente inferiore rispetto al polipropilene ma l’integrazione tissutale, intesa come migrazione cellulare all’interno dell’impianto stesso, risulta inferiore. Se da un lato ciò implica un minore ancoraggio della protesi ai tessuti, dall’altro risulta un enorme vantaggio nel caso di necessità di rimozione.
Il tasso di infezione è variabile tra lo 0.2% e il 4% e sicuramente non omogeneo. In ogni caso la protesi andrebbe rimossa, anche se non estrusa, a causa delle alterazioni strutturali che derivano dai processi infettivi.
Protesi in PMMA utilizzata per ricoprire bulbi eviscerati con impianto endosclerale, bulbi atrofici o microftalmi che hanno perso la funzione visiva. Può essere realizzato anche con un diottro centrale al posto della pupilla nera nei casi in cui il bulbo ha conservato un residuo visivo utilizzabile. Il guscio sclerale si distingue dalla protesi per anoftalmo per il suo spessore molto più sottile e per il profilo interno lavorato con finitura ottica (come una comune lente a contatto rigida), essendo applicato su un bulbo che frequentemente ha uno spessore non trascurabile. Spesso anche i bulbi atrofici hanno una spiccata sensibilità che impone al protesista di realizzare il guscio di ricoprimento con una geometria tale da evitare il contatto con la cornea.
Indicazioni:
L’applicazione si sviluppa in tre fasi:
Caratteristiche costruttive di questa applicazione sono:
Il disimpegno corneale, una curvatura presente nella superficie interna della protesi studiata per rispettare la sensibilità corneale e garantire il costante afflusso sanguigno nei vasi perilimbari, assicurando così la corretta ossigenazione della cornea.
I fori antiventosa sono minuscole perforazioni calibrate che garantiscono il passaggio di ossigeno impedendo il formarsi del cosiddetto «effetto ventosa» che può provocare fenomeni di anossia corneale.
Il bilanciamento assiale, ottenuto mediante un profilo che prevede la distribuzione asimmetrica dello spessore e di conseguenza del peso (spessore minimo nella parte superiore e massimo in quella inferiore). In questo modo si ottiene un «effetto zavorra» che garantisce il costante orientamento della lente.
Il decentramento della camera corneale, corregge il disallineamento della cornea che è spesso presente nelle subatrofia bulbare e nel microftalmo. Si evitano così contatti indesiderati tra cornea e protesi, eliminando il rischio di disepitelizzazione corneale.
Sale di fosfato di calcio, composto inorganico principale della matrice ossea. E’ il prototipo del materiale utilizzato per la sostituzione dell’osso ma viene frequentemente utilizzato nell’oftalmoplastica come impianto poroso negli interventi di enucleazione ed eviscerazione, in virtù delle sue doti di biocompatibilità ed alla sua facile fibrovascolarizzazione che rende l’impianto più «integrato» con l’organismo, diminuendo sensibilmente le probabilità di infezione o rigetto.
Le maggiori applicazioni dell’HA e delle altre ceramiche in chirurgia plastica e ricostruttiva interessano il distretto cranio-facciale. Il loro uso è tipico nella ricostruzione temporanea di segmenti scheletrici nel caso di pazienti oncologici con limitata aspettativa di vita, in caso di supplementi di terapia (RT) o nelle resezioni con intento palliativo. Per difetti di piccole dimensioni la HA è un buon riempitivo e favorisce, con la sua proprietà osteoconduttiva la rivascolarizzazione e la riossificazione progressiva dell’area trattata. L’HA è impiegata anche come materiale di camouflage in difetti maxillofacciali conseguenti a trauma o tumori.
L’impianto è utilizzato soprattutto nell’enucleazione, posizionato dentro la capsula di Tenone mentre è meno frequente il suo utilizzo nell’eviscerazione. La HA non è adatta all’ancoraggio diretto dei muscoli e per questo tipo di intervento richiede sempre il ricoprimento con materiale sintetico, autologo o sclera di donatore, inoltre è scarsamente sagomabile perché essendo molto ruvida provoca un traumatismo diretto sui tessuti con il rischio di espulsione. L’idrossiapatite in forma densa è difficile da modellare ed è soggetta a migrazione ed estrusione. Le forme micro e macroporose oggi disponibili sono molto più sicure ed hanno capacità osteoconduttive maggiori. L’idrossiapatite non sopporta il carico ed è soggetta a frattura e rottura completa.
Metodo di rilevazione della forma di una cavità organica come quella anoftalmica, l’orbita o il sacco congiuntivale che racchiude il bulbo oculare. Il metodo di riprodurre un calco in materiale acrilico (silicone o alginato) è valido soprattutto per riprodurre la forma dell’orbita poiché in questo caso è necessaria una riproduzione protesica fedele della cavità stessa. Nel caso della cavità anoftalmica invece, la riproduzione fedele del volume è pressoché inutile poiché la forma della protesi oculare correttamente eseguita è spesso diversa da quella riproducibile con un calco. Il calco eseguito su un bulbo atrofico o comunque non vedente è concettualmente errato poiché una protesi sclerale con a stessa forma del calco potrebbe risultare addirittura dannosa per il bulbo stesso.
Le fasi per la realizzazione dell’impronta sono:
Vantaggi:
Svantaggi:
Viene prodotto con una polvere di polimeri di polietilene a bassa pressione mescolati insieme e modellati in sagome e può essere modellato tagliandolo e ammorbidendolo in acqua calda. Non può essere sterilizzato in autoclave avendo una temperatura di fusione di 110°C ma la sterilizzazione è possibile con ossido di etilene. Il Medpor è altamente poroso e fino al 50% del suo volume è costituito da pori di 100-250 micron, ha una densità di 0.6g/cm3., è soggetto ad ancoraggio con i tessuti molli ed è moderatamente osteoconduttivo. L’incidenza di infezione è bassa e provoca una reazione da corpo estraneo minima con una capsula periprotesica sottile. E’ stabile e non va incontro a riassorbimento. L’estrusione dell’impianto è rara e può essere trattata conservativamente con l’utilizzo di innesti cutanei.
E’ uno dei materiali alloplastici più utilizzati in chirurgia cranio-maxillofacciale, come materiale di camouflage nei deficit dei tessuti molli post-oncologici o post-traumatici, nella ricostruzione del pavimento e della parete laterale dell’orbita, delle strutture osse mediofacciali , del mento e del naso, nel trattamento della microtia e nella ricostruzione dell’orecchio conseguente ad ustioni gravi. In chirurgia estetica viene utilizzato nell’aumento di diverse regioni dello scheletro facciale: zigomi, mento, mascellare superiore e naso.
Le complicanze sono quelle conseguenti all’utilizzo di ogni materiale protesico. L’infezione è un’evenienza rara e anche l’estrusione. La capsula periprotesica che si forma intorno all’impianto è molto sottile e non dà garanzia di una perfetta immobilità. Nelle applicazioni maxillofacciali scheletriche il Medpor deve essere fissato con mezzi di osteosintesi adeguati.
Operatore tecnico privato che realizza ed applica protesi oculari ed in alcuni casi Epitesi ricostruttive. In Italia, a differenza di molti Paesi europei, la figura dell’ocularista non è riconosciuta ufficialmente dallo Stato italiano e la professione è regolamentata solo per quanto concerne i rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale e l’idoneità degli ambienti nei quali esercitare l’attività.
Negli ultimi anni il Ministero della Salute si sta orientando nel riconoscere la figura del «Tecnico abilitato», rendendo obbligatorio il conseguimento del titolo di Ottico diplomato con abilitazione alla professione ma non tutte le regioni italiane si sono allineate alla nuova direttiva. Il Ministero della salute e gli altri organi preposti al controllo delle professioni sanitarie non esercitano attualmente altri controlli nei confronti degli operatori del settore, consentendo così un consistente abusivismo.
L’Oculoplastica è una branca dell’Oculistica che si occupa delle malattie delle palpebre, delle vie lacrimali e dell’orbita, perciò anche delle patologie relative alla oculoprotesica. Rappresenta un livello di competenza successivo alla Specializzazione in Oculistica: si può conseguire una cosiddetta «fellowship» della durata variabile da 6 mesi a 2 anni, una sorta di Master durante i quali il Medico Oculista Specialista approfondisce le sue conoscenze in questo specifico settore sotto la guida di un chirurgo la cui esperienza ed idoneità allo scopo siano ufficialmente riconosciute.
Il pericardio è un sacco fibrosieroso che accoglie il cuore e il suo peduncolo vascolare. È costituito da uno strato esterno di tessuto fibroso, pericardio fibroso, rivestito, sulla superficie interna, dal foglietto parietale della seriosa cardiaca, il pericardio serioso. Il pericardio chirurgico (Peri-Guard o Ocu-Guard) è un biomateriale di derivazione umana o bovina ampiamente utilizzato in ingegneria tessutale per la ricostruzione di una varietà di bioprotesi come innesti vascolari, patch per la ricostruzione di pareti vaginali e addominali, e più frequentemente, per valvole cardiache. E’ utilizzato come protesi per la chiusura dei tessuti molli che includono: difetti della parete addominale e toracica, bendaggio gastrico, rinforzo muscolare ed ernie (diaframmatica, femorale, incisionale, inguinale, lombare, scrotale e ombelicale). E’ realizzato con un reticolato di glutaraldeide (un disinfettante utilizzato per ridurre i rischi di rigetto e degenerazione all’interno dell’organismo) e sterilizzato chimicamente con etanolo e ossido di propilene.
In oftalmoplastica è utilizzato per realizzare la copertura di impianti porosi. Ha lunga durata (fino a 5 anni) ma può costare quanto l’impianto stesso e il suo utilizzo non è esente da rischi (ad esempio, l’esposizione dell’impianto). E’ stato riportato infatti un tasso significativamente più alto di esposizione di impianti di idrossiapatite avvolta con pericardio bovino (23%) rispetto a quelli avvolti con sclera di donatore (3,8%). Per questi motivi l’uso di pericardio per ricoprire impianti porosi è poco consigliato.
Materiale plastico generalmente trasparente utilizzato per la costruzione di lenti a contatto rigide, gusci, lenti intraoculari, impianti, ecc. E’ facilmente lavorabile ed è ben tollerato dall’organismo.
E’ spesso usato in alternativa al vetro; alcune delle differenze tra i due materiali sono le seguenti:
Possiede un buon grado di biocompatibilità con i tessuti umani, viene per questo usato nella produzione di lenti intraoculari, lenti a contatto rigide e protesi oculari. In ortopedia il PMMA è usato come cemento per fissare impianti, per rimodellare parti di osso perdute o riparare vertebre fratturate (Vertebroplastica). In chirurgia estetica, iniezioni di micro-sfere di PMMA sotto pelle vengono usate per ridurre rughe e cicatrici.
Viene commercializzato in polvere da miscelare al momento dell’uso con metacrilato di metile (MMA) liquido per formare una pasta che indurisce gradualmente. Benché il PMMA sia biocompatibile, l’MMA è una sostanza irritante e perché questo effetto sia neutralizzato è necessario un processo di polimerizzazione eseguito correttamente.
Gli effetti collaterali dell’applicazione locale del PMMA sono rari. La risposta infiammatoria tissutale è minima e consiste nella formazione di una sottile capsula intorno all’impianto che contiene fibroblasti e rare cellule giganti da corpo estraneo. Come qualunque corpo estraneo il suo impianto è soggetto al rischio di infezione ed estrusione, eventualità peraltro abbastanza rare. A tale proposito, è preferibile evitare l’uso del PMMA al di sotto di innesti cutanei o tessuto cicatriziale: ciò riduce drasticamente l’incidenza di infezione della protesi.
Processo termochimico tra un polimero in polvere (PMMA) ed un monomero liquido (MMA) che permette di ottenere una sostanza definita «resina acrilica», materia base per la realizzazione di una protesi oculare. La polimerizzazione è ottenuta ponendo lo stampo contenente la resina in bagno d’acqua per alcune ore. Questo processo termochimico trasforma il materiale resinoso facendogli assumere una consistenza ed un aspetto simili al vetro e liberandolo da ogni traccia di sostanze irritanti.
Le reazioni allergiche a materiali per protesi con base di PMMA sono sempre molto rare rispetto al numero di protesi applicate. Le protesi in resina polimerizzate completamente e conformemente alle disposizioni non contengono perossido libero e quindi sensibilizzante. Anche il contenuto di monomeri è condizionato dalla polimerizzazione e successivamente dall’immersione in acqua.La riduzione del tempo di polimerizzazione consigliato comporta perciò un incremento del contenuto di perossido e monomeri residui nella protesi ma anche i valori fisici dei materiali per protesi vengono influenzati negativamente.
Le molecole di questo polimero tendono ad essere altamente allineate e compatte, il che conferisce al materiale le caratteristiche di durevolezza, resistenza alla trazione ed agli agenti chimici. E’ permeabile all’acqua, resistente ai raggi X e ad alte temperature (160°C). Quest’ultima proprietà ne consente la sterilizzazione in autoclave senza alterarne la struttura né le caratteristiche fisiche.
Le reti di Polipropilene monofilamento più utilizzate per la ricostruzione della parete toracica (Marlex, Prolene) sono non riassorbibili e differiscono tra loro solo per la porosità (il Prolene possiede pori più ampi) e per la rigidità (la rete di Marlex è distensibile lungo un solo asse, quella di Prolene è rigida lungo tutti gli assi). Le dimensioni dei pori sono importanti per il ruolo che hanno nelle infezioni. Marlex e Prolene rientrano nelle protesi di tipo I e cioè il gruppo pori più ampi (il Gore-tex ad es. appartiene al tipo II con pori più piccoli). I materiali con pori di tipo I permettono il passaggio di macrofagi, fibroblasti e dei neovasi e favoriscono quindi sia una risposta antibatterica che l’integrazione tissutale.
Il Polipropilene (PP) è uno dei materiali da più tempo conosciuti ed utilizzati in chirurgia per le sue caratteristiche di resistenza, inerzia, biocompatibilità e capacità di integrazione tissutale. Il suo utilizzo in chirugia plastica è essenzialmente rivolto alla riparazione di difetti della parete toracica e addominale mentre in oftalmoplastica è raramente utilizzato.
Il Politetrafluoroetilene noto soprattutto con il nome commerciale TEFLON è un polimero del tetrafluoroetilene che in oftalmoplastica viene utilizzato in fogli per il ricoprimento di impianti. Possiede un insieme di caratteristiche fisico-chimiche finora non riscontrate in nessun altro materiale plastico:
Proprietà chimiche: è inerte nei confronti di tutti i reagenti chimici noti, è insolubile in qualsiasi solvente a temperature fino a 300°C. Solo a temperature prossime al punto di fusione cristallino alcuni olii altamente fluorurati possono rigonfiarlo e scioglierlo.
Proprietà termiche: ha un basso coefficiente di trasmissione termica ed è perciò da considerare un isolante termico. Non è infiammabile ed è stabile per tempi indeterminatamente lunghi fino a 260°C.
Proprietà elettriche: possiede ottime qualità dielettriche in un ampio campo di temperature e di frequenze. Essendo l’assorbimento d’acqua praticamente nullo, le caratteristiche si mantengono invariate anche dopo prolungata esposizione agli agenti atmosferici. La rigidità dielettrica non è praticamente influenzata dalla temperatura d’esercizio.
Proprietà meccaniche: Le proprietà meccaniche alla temperatura di 23°C sono eccellenti per resistenza all’attrito, scorrevolezza superficiale e durata.
Le protesi oculari, in passato, erano costruite in vetro. Ancora oggi alcuni utilizzano questo materiale che crea però notevoli problemi estetici e di tollerabilità. le proprietà negative delle protesi oculari in vetro sono:
La resina acrilica (PMMA) tra tutti i materiali artificiali oggi disponibili è quello che meglio corrisponde ai requisiti richiesti per la fabbricazione di una protesi oculare. I suoi vantaggi sono i seguenti:
La protesi in resina acrilica non deve essere rimossa dalla cavità durante il sonno e le operazioni di manutenzione quotidiana possono essere svolte con la protesi applicata. Ciò evita che le palpebre vengano eccessivamente sollecitate meccanicamente, ed evita anche al disagio psicologico del paziente che non deve più maneggiare la protesi o vedersi con la cavità anoftalmica vuota.
Vedi «PMMA».
La sclera umana liofilizzata è utilizzata in oftalmoplastica nell’enucleazione del bulbo quando è necessario rivestire l’impianto ed agganciarvi i muscoli oculomotori per ripristinare la motilità ed avere un fulcro di movimento più avanzato, simile all’occhio naturale. E’ anche utilizzata come complemento nella correzione chirurgica dell’entropion e dell’ectropion senile, rinforzando la struttura tarsale indebolita con un innesto di sclera. Anche nei casi di trichiasi è possibile utilizzare la sclera quale rinforzo tarsale. Altri usi sono tipici nei casi di ampliamento della cavità anoftalmica contratta, nella correzione delle retrazioni palpebrali superiore ed inferiore (soprattutto nel caso di esoftalmo tiroideo) e a livello bulbare in casi di scleromalacia localizzata.
I risultati funzionali ed estetici sono buoni per la scarsa reazione flogistica postoperatoria, in quanto la sclera umana liofilizzata viene ottimamente tollerata dai tessuti in cui è innestata perché l’impalcatura connettivale così ottenuta viene gradualmente abitata da cellule connettivali autoctone e costituisce una struttura stabile e robusta. La reazione che si osserva nell’esame istologico dei tessuti del ricevente, infatti, è modesta non trattandosi di una reazione di rigetto, ed è del tutto analoga a quella che riscontriamo nei casi di innesti di cartilagine autologa. Poiché spesso non è agevole ottenere una sufficiente fornitura di sclera umana liofilizzata, ricordiamo che si può conservare la sclera umana prelevata dal cadavere, durante il prelievo dei bulbi oculari a scopo di trapianto corneale.
L’uso di sclera umana da donatore è andata ormai in disuso a causa del potenziale rischio di trasmissione del virus dell’immunodeficienza umana (HIV), epatite B o C, e malattia di Creutzfeldt-Jakob (encefalopatia spongiforme). Anche se non sono stati accertati casi di trasmissione della malattia da sclera di donatore, i segmenti del virus HIV-1 del genoma sono stati identificati in sclera umana conservata ed è stata riportata la trasmissione della malattia di Creutzfeldt-Jakob in seguito a trapianto durale e corneale.
Polimero inorganico inerte e biocompatibile prodotto in forma solida (elastomeri), gel, schiuma e liquida, in relazione al grado di polimerizzazione. E’ usato in campo medico da circa cinquanta anni e nessun altro materiale ha dimostrato di avere le stesse doti di biocompatibilità, flessibilità, inerzia chimica ed essere anche facilmente sterilizzabile. I siliconi resistono alle sollecitazioni chimiche più spinte come nell’ambiente acido dello stomaco. Per questi motivi è il materiale scelto più frequentemente per costruire dispositivi medicali da impiantare all’interno del corpo umano. L’uso del silicone in medicina è estremamente ampia: le sue proprietà lubrificanti lo rendono particolarmente adatto a rivestire prodotti biomedicali come aghi e fili chirurgici, l’interno di siringhe e di flaconi per la conservazione di sangue o di farmaci per infusione endovenosa o ancora come rivestimento di pacemakers e di valvole cardiache artificiali.
Gli elastomeri di silicone sono il biomateriale preferito per la produzione di un’ampia gamma di prodotti biomedicali come ad esempio le lenti intraoculari, i drenaggi di scarico nella chirurgia del glaucoma ed anche gli impianti per oftalmoplastica, i conformatori per cavità anoftalmica, ecc.
In chirurgia plastica il silicone è impiegato negli impianti per la chirurgia ricostruttiva ed estetica del viso e negli espansori tissutali mentre nella sua forma liquida (olio di silicone) è utilizzato nella chirurgia vitreoretinica come sostanza viscoelastica per la sostituzione del vitreo patologico ma che dopo un certo tempo deve comunque essere rimosso, a volte anche con interventi multipli.
Vedi «Politetrafluoretilene».
Vedi «Acido poliglicolico».